DOPO SEGOVIA: PUO’ LA CHITARRA INTERESSARE “TUTTI”?
Intervento al Convegno di Pontedera.
Diceva Segovia: “L’artista è un uomo come gli altri, e non deve mai innamorarsi di se stesso. Perderebbe irrimediabilmente qualcosa…Come gli altri, con in più un dono meraviglioso: e per questo dono dev’essere sempre vicino ad ogni altro uomo”.
E’ innegabile che la carriera di Segovia abbia avuto anche questo effetto, oltre ad altri: non solo ha fatto sì che il mondo della musica si accorgesse della chitarra, ma ha avvicinato, proprio tramite la chitarra, tanta altra gente alla musica classica, così che la chitarra è diventata, per dirla con una felice espressione di Oscar Ghiglia (livornese, quindi non siamo fuori tema!), un ambasciatore della musica colta. Ma credo che la chiave di questo successo universale vada anche cercata in quello che a noi può sembrare un paradosso: Segovia arrivava a “tutti” proprio perché manteneva altissimo il livello della sua ricerca e proposta. Egli, infatti, puntava alla essenza del valore artistico, quella che può essere colta dall’uomo in quanto uomo - “L’artista è un uomo come gli altri” - e proprio così ha potuto essere “vicino ad ogni altro uomo”, secondo una definizione di genio che ho letto: il genio è colui che esprime quel che gli altri non riuscirebbero a dire, ma che riconoscono come proprio.
La profonda conferenza di Carlos Andrés Segovia pubblicata dalla Fondazione Segovia di Linares suggerisce proprio, per comprendere l’opera di Segovia, questo percorso a cerchi sempre più ampi, come una zoomata all’indietro: dalla musica alla bellezza, alla metafisica, all’uomo.
Ricordiamo anche le note massime del Maestro: “bisogna che i chitarristi pensino più alla musica che alla chitarra” , “la musica è un oceano, gli strumenti sono solo isole”; disse inoltre che un chitarrista deve essere illuminato dal “sole della Cultura”. Ero presente ad una delle ultime interviste fatte a Segovia (a Milano, nel 1985); gli fu chiesto: “Maestro, alla fine cosa rimane?” E lui disse: “Alla fine rimane la bontà”.
Di recente Filippo Michelangeli diceva che i chitarristi sono gente buona; ho pensato che forse questo è dovuto al perdurare tra noi dell’influsso della personalità che direttamente o indirettamente ha avvicinato tutti noi alla chitarra.
Insomma Segovia, uomo appassionato di bellezza e di cultura, che leggeva ore e ore ogni giorno, ha colto nella chitarra un veicolo privilegiato proprio per esprimere una bellezza universale ed il portato di una ricca tradizione culturale; dico che proprio questo gli ha permesso di incontrare tutti.
Il successo universale di Segovia ha favorito, lo sappiamo, anche la nascita di un “mercato” della chitarra; si è creata una domanda che giustificava l’offerta, e quindi la “categoria professionale” del chitarrista. Così, sull’onda di questa popolarità, la chitarra nel dopoguerra è entrata nei conservatori ed un enorme numero di chitarristi professionisti si è potuto affacciare sul mercato, un po’ in tutto il mondo.
Ma contemporaneamente il mondo nella musica, sempre più, mi pare sia spesso caduto in quell’“innamorarsi di se stesso” contro cui metteva in guardia Segovia: lo vedo in tanto tecnicismo fine a se stesso, in certo accanimento analitico e filologico fine a se stesso, negli sterili intellettualismi di tanta musica d’avanguardia fini a se stessi.
In questo periodo, diciamo a partire dagli anni sessanta - settanta, i chitarristi, finalmente accolti grazie all’opera di Segovia nelle programmazioni musicali ufficiali, hanno spesso fatto quello che secondo me è stato un errore decisivo: “tagliando” con la tradizione da cui nascevano non hanno più cercato il riferimento a quel “fare musica” in senso alto e quindi a quel pubblico universale di cui sopra, ma hanno cercato piuttosto di adeguarsi alla moda allora imperante nel “modo musicale”, operando scelte che in teoria avrebbero dovuto renderli simili agli altri strumentisti e bene accetti, finalmente alla pari con gli altri, ma che in pratica hanno semplicemente fatto perdere loro il pubblico minando quindi il loro inserimento nel mercato.
Ad esempio, i chitarristi hanno pensato che fosse necessario emanciparsi da un repertorio che sentivano inadeguato rispetto a ciò che suonavano “gli altri”. Ricordo la diatriba sulle trascrizioni: sembrava doveroso proporre a tutti i costi solo il repertorio originale e tutti i pezzi in versione integrale senza potere o volere vagliarne il valore in termini assoluti - ma era, appunto, l’aria che tirava in quel periodo; ricordo una caustica osservazione del grande compositore Niccolò Castiglioni: “la moda delle edizioni integrali è sintomo della incapacità di scegliere quel che vale” - oppure cimentarsi con la musica intellettualistica di alcuni autori contemporanei che andavano di moda.
La tendenza a superare la “anomalia” del nostro repertorio è ravvisabile anche nella composizione del programma di studi del corso di chitarra nei conservatori italiani: a mio avviso rimane un bel programma, ma si avverte un po’ in esso il desiderio di essere, come si dice oggi, politicamente corretti, per esempio eliminando tutte le trascrizioni tranne quelle da liuto, vihuela e chitarra antica - ma tanti colleghi non vorrebbero neanche quelle.
Anche a causa di queste scelte (che vanno, e comprensibilmente, di pari passo con un certo generale e omologante appiattimento interpretativo, riscontrabile del resto anche negli altri strumenti: un celebre concorso, credo di piano o violino, ha recentemente chiuso i battenti dicendo di aver perso la sua funzione dato che un vincitore era ormai indistinguibile da un altro) il chitarrista ha cominciato a perdere pubblico, proprio quel pubblico aggiunto che Segovia aveva conquistato alla chitarra.
A quel punto le stagioni concertistiche, che prima invitavano i chitarristi perché comunque “riempivano la sala”, hanno preso atto della mutata situazione e la presenza della chitarra nella vita musicale tradizionale si è molto rarefatta (in questo senso concordo con l’analisi fatta da Filippo Michelangeli in un editoriale di “Seicorde” alcuni anni fa).
Ma nel frattempo i chitarristi crescevano e si moltiplicavano, diventando tra l’altro un grande bacino di utenza per quelli di loro che erano più in vista nell’insegnamento e nella editoria. Allora (direi a partire dagli anni ’80) il secondo grande errore del nostro “ambiente” è stato quello di credere di poter supplire a quella apertura universale che aveva caratterizzato il boom della chitarra (apertura, lo ricordo, in due sensi: apertura della chitarra alla cultura, ad un mondo alto di valori, e contemporaneamente apertura a tutti, portando la bellezza della musica classica a tutti) con una chiusura della chitarra in se stessa e con un mercato interno, costituito dagli aficionados della chitarra, un po’ come ai tempi prima di Segovia, anche se con molte maggiori risorse tecniche di tutti i tipi (dal livello tecnico generale dei chitarristi comunque cresciuto enormemente, alla facilità di reperire edizioni di dischi e spartiti, alla facilità di comunicazioni e di organizzare eventi…). Ci siamo cioè rassegnati ad essere una piccola nicchia all’interno della nicchia un po’ più grande degli appassionati di musica classica (“la chitarra non interessa nemmeno gli altri musicisti, figuriamoci se può interessare gli altri!” ha detto recentemente una persona peraltro attivissima nell’organizzare cose chitarristiche).
Nel frattempo, con l’approssimarsi della fine del ventesimo secolo, l’intellettualismo prima imperante anche nel mondo musicale ha pagato la pena del contrappasso (e la chitarra ancora una volta ha seguito la moda): oggi vediamo contrapposto ad un mondo musicale un po’ arroccato nella difesa ad oltranza della torre di avorio di una “accademia” un emergente ribollire di istintualità e di “pensiero debole”.
Questa contrapposizione si vede anche tra i chitarristi; basta pensare al fenomeno di alcuni chitarristi compositori con le loro musiche tra il crossover e la new age; tanghi da tutte le parti e così via, e in tutto il mondo (ho suonato in cinquanta Paesi, la omologazione che ho visto è veramente impressionante).
Oggi il “mondo della chitarra” è sostanzialmente troppo spesso un mondo autoreferenziale, in cui il chitarrista ha come interlocutori non più la gente - gente (“vicino a tutti” diceva Segovia), ma gli altri chitarristi e quel che dicono le riviste o i forum specializzati; e, se si apre al resto del mondo, lo fa in termini di populismo musicale, scendendo a compromessi con la musica di consumo. Questa autoreferenzialità poi tende a perpetuarsi, perché cosa fa oggi un giovane chitarrista serio che vuole essere al corrente di quello che succede? E’ probabile che si abboni ad una rivista chitarristica, frequenti i più vicini o noti festival e concorsi chitarristici: e cosa ci trova? Questo mondo chiuso in sé che si autocelebra, una nicchia con i suoi eroi e le sue mode (la presenza della chitarra in importanti contesti musicali, quando accade, rischia di non trovare nessuna eco in questi ambienti se, ad esempio, il compositore o l’interprete in questione - magari oggettivamente significativi - non sono tra i nomi che “circolano” nell’ambiente) .
Per me, che suono quasi sempre per un pubblico non di chitarristi, la differenza è impressionante; ad esempio, ho recentemente suonato per un festival di chitarra a Città del Messico e subito dopo lo stesso programma a San Francisco per un pubblico “normale”: sembravano due universi paralleli e non comunicanti fra loro.
Anche se oggi appare molto vitale e pullulante di iniziative è come se il mondo della chitarra, a causa di questo taglio con la sua tradizione, abbia minato le sue basi, e fosse per questo motivo un “gigante dai piedi d’argilla”.
C’è una caustica osservazione a questo proposito che ho letto recentemente nel metodo di Sor e che si potrebbe applicare anche oggi:
“Quel che era considerato maestria dello strumento, era proprio ciò che impediva di raggiungerla”.
(Sor, Metodo)
Sembra forse una frase difficile, ma la chiarisco con un ulteriore esempio. Recentemente una mia allieva è andata a sentire un concerto ad un festival di chitarra. Pubblico in delirio, ma lei dice al vicino entusiasta: “ma a me questo non ha detto niente”. E lui, come riscuotendosi: “In effetti, è vero”. Proprio ciò che lo aveva fatto applaudire gli aveva impedito di rendersi conto di quello che mancava.
Per me l’incontro con Segovia è stata una folgorazione che ha messo in moto un processo di pensiero in continua evoluzione; mi interessa certo che la chitarra “vada avanti” come lo stesso Segovia mi disse, l’ultima volta che lo incontrai a Madrid, che auspicava succedesse dopo di lui, ma andare avanti in quella direzione. Il problema, per riferirmi ad un tormentone ogni tanto riaffiorante, non è se c’è o chi è il nuovo Segovia, ma se andare avanti, come ciascuno può, su quella strada di apertura culturale e quindi di apertura a tutti che lui ha vissuto, oppure tagliare con questa tradizione. Per quanto mi riguarda, intendo tutta la mia attività professionale come un tentativo di portare avanti quella tradizione di cui ho parlato. Questo implica fare alcune cose che oggi vedo molto poco: in primo luogo chiedersi le ragioni di quello che si suona senza darle per scontate: “cosa dice questo a me? E cosa può dire, quindi, a tutti?” (Ricordo una frase di Belohradsky: “Tradizione europea significa non poter vivere mai al di là della coscienza riducendola ad un apparato anonimo…”); una ricerca assolutamente personale, un paragone attento e personale con la grande tradizione compositiva e interpretativa dal passato ai giorni nostri, la consapevolezza critica del valore del nostro repertorio, che è estremamente variegato, in rapporto alle nostre esigenze.
Una delle cose che sto facendo nella direzione di cui sto parlando è la proposta di un programma, diciamo di tipo divulgativo, che abbina la storia dell’arte alla musica. E’ un programma tra l’altro molto richiesto: l’avrò fatto un centinaio di volte negli ultimi anni andando un po’ ovunque, dalle scuole alle università a centri culturali, nel tentativo di contribuire a riportare la musica a “tutti”; ed i risultati sono molto incoraggianti.
Invece di parlarne vi faccio un esempio in cinque minuti, se mai ne parliamo dopo.
Gli esempi musicali sono tratti da un ciclo di tre concerti su musica e arte di un’ora l’uno, con brani musicali dal rinascimento ad oggi.
Ho scelto solo tre esempi, ciascuno a suo modo significativo: una trascrizione segoviana da Mendelssohn; un pezzo scritto per me da Gilberto Cappelli proprio per queste occasioni (pensate: un grande compositore - Cappelli ha vinto anche il Premio Abbiati - che scrive pezzi brevi che possano essere ascoltati anche da una scolaresca) ed una mia trascrizione di un pezzo pianistico di John Cage, “A Room”.
Dopo attendo i vostri interventi per un dialogo che spero possa continuare anche successivamente.
Grazie
Piero Bonaguri
Intervento al Convegno di Pontedera.
Diceva Segovia: “L’artista è un uomo come gli altri, e non deve mai innamorarsi di se stesso. Perderebbe irrimediabilmente qualcosa…Come gli altri, con in più un dono meraviglioso: e per questo dono dev’essere sempre vicino ad ogni altro uomo”.
E’ innegabile che la carriera di Segovia abbia avuto anche questo effetto, oltre ad altri: non solo ha fatto sì che il mondo della musica si accorgesse della chitarra, ma ha avvicinato, proprio tramite la chitarra, tanta altra gente alla musica classica, così che la chitarra è diventata, per dirla con una felice espressione di Oscar Ghiglia (livornese, quindi non siamo fuori tema!), un ambasciatore della musica colta. Ma credo che la chiave di questo successo universale vada anche cercata in quello che a noi può sembrare un paradosso: Segovia arrivava a “tutti” proprio perché manteneva altissimo il livello della sua ricerca e proposta. Egli, infatti, puntava alla essenza del valore artistico, quella che può essere colta dall’uomo in quanto uomo - “L’artista è un uomo come gli altri” - e proprio così ha potuto essere “vicino ad ogni altro uomo”, secondo una definizione di genio che ho letto: il genio è colui che esprime quel che gli altri non riuscirebbero a dire, ma che riconoscono come proprio.
La profonda conferenza di Carlos Andrés Segovia pubblicata dalla Fondazione Segovia di Linares suggerisce proprio, per comprendere l’opera di Segovia, questo percorso a cerchi sempre più ampi, come una zoomata all’indietro: dalla musica alla bellezza, alla metafisica, all’uomo.
Ricordiamo anche le note massime del Maestro: “bisogna che i chitarristi pensino più alla musica che alla chitarra” , “la musica è un oceano, gli strumenti sono solo isole”; disse inoltre che un chitarrista deve essere illuminato dal “sole della Cultura”. Ero presente ad una delle ultime interviste fatte a Segovia (a Milano, nel 1985); gli fu chiesto: “Maestro, alla fine cosa rimane?” E lui disse: “Alla fine rimane la bontà”.
Di recente Filippo Michelangeli diceva che i chitarristi sono gente buona; ho pensato che forse questo è dovuto al perdurare tra noi dell’influsso della personalità che direttamente o indirettamente ha avvicinato tutti noi alla chitarra.
Insomma Segovia, uomo appassionato di bellezza e di cultura, che leggeva ore e ore ogni giorno, ha colto nella chitarra un veicolo privilegiato proprio per esprimere una bellezza universale ed il portato di una ricca tradizione culturale; dico che proprio questo gli ha permesso di incontrare tutti.
Il successo universale di Segovia ha favorito, lo sappiamo, anche la nascita di un “mercato” della chitarra; si è creata una domanda che giustificava l’offerta, e quindi la “categoria professionale” del chitarrista. Così, sull’onda di questa popolarità, la chitarra nel dopoguerra è entrata nei conservatori ed un enorme numero di chitarristi professionisti si è potuto affacciare sul mercato, un po’ in tutto il mondo.
Ma contemporaneamente il mondo nella musica, sempre più, mi pare sia spesso caduto in quell’“innamorarsi di se stesso” contro cui metteva in guardia Segovia: lo vedo in tanto tecnicismo fine a se stesso, in certo accanimento analitico e filologico fine a se stesso, negli sterili intellettualismi di tanta musica d’avanguardia fini a se stessi.
In questo periodo, diciamo a partire dagli anni sessanta - settanta, i chitarristi, finalmente accolti grazie all’opera di Segovia nelle programmazioni musicali ufficiali, hanno spesso fatto quello che secondo me è stato un errore decisivo: “tagliando” con la tradizione da cui nascevano non hanno più cercato il riferimento a quel “fare musica” in senso alto e quindi a quel pubblico universale di cui sopra, ma hanno cercato piuttosto di adeguarsi alla moda allora imperante nel “modo musicale”, operando scelte che in teoria avrebbero dovuto renderli simili agli altri strumentisti e bene accetti, finalmente alla pari con gli altri, ma che in pratica hanno semplicemente fatto perdere loro il pubblico minando quindi il loro inserimento nel mercato.
Ad esempio, i chitarristi hanno pensato che fosse necessario emanciparsi da un repertorio che sentivano inadeguato rispetto a ciò che suonavano “gli altri”. Ricordo la diatriba sulle trascrizioni: sembrava doveroso proporre a tutti i costi solo il repertorio originale e tutti i pezzi in versione integrale senza potere o volere vagliarne il valore in termini assoluti - ma era, appunto, l’aria che tirava in quel periodo; ricordo una caustica osservazione del grande compositore Niccolò Castiglioni: “la moda delle edizioni integrali è sintomo della incapacità di scegliere quel che vale” - oppure cimentarsi con la musica intellettualistica di alcuni autori contemporanei che andavano di moda.
La tendenza a superare la “anomalia” del nostro repertorio è ravvisabile anche nella composizione del programma di studi del corso di chitarra nei conservatori italiani: a mio avviso rimane un bel programma, ma si avverte un po’ in esso il desiderio di essere, come si dice oggi, politicamente corretti, per esempio eliminando tutte le trascrizioni tranne quelle da liuto, vihuela e chitarra antica - ma tanti colleghi non vorrebbero neanche quelle.
Anche a causa di queste scelte (che vanno, e comprensibilmente, di pari passo con un certo generale e omologante appiattimento interpretativo, riscontrabile del resto anche negli altri strumenti: un celebre concorso, credo di piano o violino, ha recentemente chiuso i battenti dicendo di aver perso la sua funzione dato che un vincitore era ormai indistinguibile da un altro) il chitarrista ha cominciato a perdere pubblico, proprio quel pubblico aggiunto che Segovia aveva conquistato alla chitarra.
A quel punto le stagioni concertistiche, che prima invitavano i chitarristi perché comunque “riempivano la sala”, hanno preso atto della mutata situazione e la presenza della chitarra nella vita musicale tradizionale si è molto rarefatta (in questo senso concordo con l’analisi fatta da Filippo Michelangeli in un editoriale di “Seicorde” alcuni anni fa).
Ma nel frattempo i chitarristi crescevano e si moltiplicavano, diventando tra l’altro un grande bacino di utenza per quelli di loro che erano più in vista nell’insegnamento e nella editoria. Allora (direi a partire dagli anni ’80) il secondo grande errore del nostro “ambiente” è stato quello di credere di poter supplire a quella apertura universale che aveva caratterizzato il boom della chitarra (apertura, lo ricordo, in due sensi: apertura della chitarra alla cultura, ad un mondo alto di valori, e contemporaneamente apertura a tutti, portando la bellezza della musica classica a tutti) con una chiusura della chitarra in se stessa e con un mercato interno, costituito dagli aficionados della chitarra, un po’ come ai tempi prima di Segovia, anche se con molte maggiori risorse tecniche di tutti i tipi (dal livello tecnico generale dei chitarristi comunque cresciuto enormemente, alla facilità di reperire edizioni di dischi e spartiti, alla facilità di comunicazioni e di organizzare eventi…). Ci siamo cioè rassegnati ad essere una piccola nicchia all’interno della nicchia un po’ più grande degli appassionati di musica classica (“la chitarra non interessa nemmeno gli altri musicisti, figuriamoci se può interessare gli altri!” ha detto recentemente una persona peraltro attivissima nell’organizzare cose chitarristiche).
Nel frattempo, con l’approssimarsi della fine del ventesimo secolo, l’intellettualismo prima imperante anche nel mondo musicale ha pagato la pena del contrappasso (e la chitarra ancora una volta ha seguito la moda): oggi vediamo contrapposto ad un mondo musicale un po’ arroccato nella difesa ad oltranza della torre di avorio di una “accademia” un emergente ribollire di istintualità e di “pensiero debole”.
Questa contrapposizione si vede anche tra i chitarristi; basta pensare al fenomeno di alcuni chitarristi compositori con le loro musiche tra il crossover e la new age; tanghi da tutte le parti e così via, e in tutto il mondo (ho suonato in cinquanta Paesi, la omologazione che ho visto è veramente impressionante).
Oggi il “mondo della chitarra” è sostanzialmente troppo spesso un mondo autoreferenziale, in cui il chitarrista ha come interlocutori non più la gente - gente (“vicino a tutti” diceva Segovia), ma gli altri chitarristi e quel che dicono le riviste o i forum specializzati; e, se si apre al resto del mondo, lo fa in termini di populismo musicale, scendendo a compromessi con la musica di consumo. Questa autoreferenzialità poi tende a perpetuarsi, perché cosa fa oggi un giovane chitarrista serio che vuole essere al corrente di quello che succede? E’ probabile che si abboni ad una rivista chitarristica, frequenti i più vicini o noti festival e concorsi chitarristici: e cosa ci trova? Questo mondo chiuso in sé che si autocelebra, una nicchia con i suoi eroi e le sue mode (la presenza della chitarra in importanti contesti musicali, quando accade, rischia di non trovare nessuna eco in questi ambienti se, ad esempio, il compositore o l’interprete in questione - magari oggettivamente significativi - non sono tra i nomi che “circolano” nell’ambiente) .
Per me, che suono quasi sempre per un pubblico non di chitarristi, la differenza è impressionante; ad esempio, ho recentemente suonato per un festival di chitarra a Città del Messico e subito dopo lo stesso programma a San Francisco per un pubblico “normale”: sembravano due universi paralleli e non comunicanti fra loro.
Anche se oggi appare molto vitale e pullulante di iniziative è come se il mondo della chitarra, a causa di questo taglio con la sua tradizione, abbia minato le sue basi, e fosse per questo motivo un “gigante dai piedi d’argilla”.
C’è una caustica osservazione a questo proposito che ho letto recentemente nel metodo di Sor e che si potrebbe applicare anche oggi:
“Quel che era considerato maestria dello strumento, era proprio ciò che impediva di raggiungerla”.
(Sor, Metodo)
Sembra forse una frase difficile, ma la chiarisco con un ulteriore esempio. Recentemente una mia allieva è andata a sentire un concerto ad un festival di chitarra. Pubblico in delirio, ma lei dice al vicino entusiasta: “ma a me questo non ha detto niente”. E lui, come riscuotendosi: “In effetti, è vero”. Proprio ciò che lo aveva fatto applaudire gli aveva impedito di rendersi conto di quello che mancava.
Per me l’incontro con Segovia è stata una folgorazione che ha messo in moto un processo di pensiero in continua evoluzione; mi interessa certo che la chitarra “vada avanti” come lo stesso Segovia mi disse, l’ultima volta che lo incontrai a Madrid, che auspicava succedesse dopo di lui, ma andare avanti in quella direzione. Il problema, per riferirmi ad un tormentone ogni tanto riaffiorante, non è se c’è o chi è il nuovo Segovia, ma se andare avanti, come ciascuno può, su quella strada di apertura culturale e quindi di apertura a tutti che lui ha vissuto, oppure tagliare con questa tradizione. Per quanto mi riguarda, intendo tutta la mia attività professionale come un tentativo di portare avanti quella tradizione di cui ho parlato. Questo implica fare alcune cose che oggi vedo molto poco: in primo luogo chiedersi le ragioni di quello che si suona senza darle per scontate: “cosa dice questo a me? E cosa può dire, quindi, a tutti?” (Ricordo una frase di Belohradsky: “Tradizione europea significa non poter vivere mai al di là della coscienza riducendola ad un apparato anonimo…”); una ricerca assolutamente personale, un paragone attento e personale con la grande tradizione compositiva e interpretativa dal passato ai giorni nostri, la consapevolezza critica del valore del nostro repertorio, che è estremamente variegato, in rapporto alle nostre esigenze.
Una delle cose che sto facendo nella direzione di cui sto parlando è la proposta di un programma, diciamo di tipo divulgativo, che abbina la storia dell’arte alla musica. E’ un programma tra l’altro molto richiesto: l’avrò fatto un centinaio di volte negli ultimi anni andando un po’ ovunque, dalle scuole alle università a centri culturali, nel tentativo di contribuire a riportare la musica a “tutti”; ed i risultati sono molto incoraggianti.
Invece di parlarne vi faccio un esempio in cinque minuti, se mai ne parliamo dopo.
Gli esempi musicali sono tratti da un ciclo di tre concerti su musica e arte di un’ora l’uno, con brani musicali dal rinascimento ad oggi.
Ho scelto solo tre esempi, ciascuno a suo modo significativo: una trascrizione segoviana da Mendelssohn; un pezzo scritto per me da Gilberto Cappelli proprio per queste occasioni (pensate: un grande compositore - Cappelli ha vinto anche il Premio Abbiati - che scrive pezzi brevi che possano essere ascoltati anche da una scolaresca) ed una mia trascrizione di un pezzo pianistico di John Cage, “A Room”.
Dopo attendo i vostri interventi per un dialogo che spero possa continuare anche successivamente.
Grazie
Piero Bonaguri