Seminario di Piobbico 1998.
Scopo di questo seminario è mettere a fuoco il lavoro dell’interprete.
Come potremmo definire l’interpretazione? A me piace usare la parola incontro, che ho trovato altrove usata per descrivere il fenomeno della conoscenza: l’interprete è un soggetto, un io, che incontra un oggetto - in questo caso il pezzo di musica - cerca di coglierne un senso unitario, di renderlo e trasmetterlo a chi ascolta. Nella misura in cui l’oggetto incontrato possiede un valore artistico, e nella misura in cui il soggetto ha vivo in sé il desiderio di bellezza e la capacità di riconoscere e rendere il bello espresso nell’opera, cogliere ed esprimere questa bellezza non è una operazione fredda e asettica , o puramente intellettuale (è qui particolarmente vero che “solo lo stupore conosce”, come diceva Gregorio di Nissa), ma provoca un gusto che vien voglia di condividere con altri, ed anche questa condivisione (Stravinski usa espressamente la parola comunione) è fonte di un appagamento, come la soddisfazione di un desiderio, è dunque esperienza di libertà , come quando ci si apre a qualcosa di più grande.
Segovia infatti disse che “l’interpretazione, come la vita , è una esplosione di libertà".
Certo, occorre che il gesto del suonare sia vissuto nella sua verità, cioè non sia ridotto o contraddetto nella sua natura profonda - ma su questo pericolo torneremo subito.
Ascoltiamo ora un esempio, e proprio di Segovia, di questa libertà in azione.
(ascolto).
Credo che l’ascolto confermi tutto quello che abbiamo detto finora.
Oggi mi sembra che ci sia una difficoltà proprio di ordine culturale, di mentalità, a cogliere e immedesimarsi con questo tipo di approccio al problema, una difficoltà quindi a definire e soprattutto a vivere l’interpretazione come esplosione di libertà, ed il risultato è che la libertà nel suonare diventa una merce sempre più rara, alla quale forse nemmeno si tiene più di tanto, sia da parte di chi suona che da parte di chi ascolta; per cui spesso il suonare viene ridotto al rispetto di regole, una selva di regole tra le quali districarsi - pensiamo anche a tanto modo di insegnare la musica - in cerca di una perfezione vista come assenza di trasgressioni alle regole (e questo nei casi più seri), oppure un mediocre, ottuso barcamenarsi in un automatismo che contraddice il desiderio di bellezza con cui uno ha cominciato a suonare - e magari uno smette perché non si sta divertendo più - ; oppure, anche se nel nostro campo non mi sembra ancora una tendenza dominante, una ricerca sì di libertà, ma intesa come puro sfogo istintivo che si impone schiacciando e mortificando le possibilità di espressione artistica contenute nel pezzo e riducendo tutto a sensazione effimera, o a sogno...
Io qui non vorrei addentrarmi sui motivi, sul perché di questa situazione che certo è un aspetto, o un frutto, di questo attacco all’io, al cuore di ognuno, attacco che così tanto caratterizza il nostro tempo.
Certo che la situazione in cui viviamo spiega perché, a mio parere, oggi c’è ancora più bisogno di riprendere in mano alcune definizioni ed indicazioni geniali sulla interpretazione, come le frasi di Segovia che citiamo oggi, chiarendosi sempre più le ragioni di quelle affermazioni, senza dare per scontato di essere d’accordo o di averle capite. Raramente infatti, uno impara quello che crede già di sapere, come ha detto qualcuno.
2
Essendo questo un seminario con intenti abbastanza pratici, confido che una immersione nella esperienza del lavoro dell’interprete sia la cosa più utile, in questa sede, ai fini di un recupero della posizione vera, presupponendo però almeno il desiderio che l’interpretazione sia o torni ad essere quella esplosione di libertà di cui parlava Segovia. Infatti, come diceva Lewis, “quel che mi piace dell’esperienza è che si tratta di una cosa così onesta. Potete fare un mucchio di svolte sbagliate; ma tenete gli occhi aperti e non vi sarà permesso di spingervi troppo lontano prima che appaia il cartello giusto”.
Affrontiamo dunque il problema del metodo, consapevoli però che non c’è metodo che tenga se prima di tutto non la si desidera, quella libertà di cui parla Segovia
A proposito del metodo di lavoro, mi sembra illuminante l’altra frase di Segovia che ho messo nel titolo:
“L’interpretazione è una sintesi in continua espansione”.
Innanzitutto, perché Segovia parla di “sintesi”?
Il pezzo di musica è una unità costituita da molteplici fattori (per esempio, tanti singoli suoni , in complessi rapporti tra loro: rapporti di tipo melodico, ritmico, armonico, contrappuntistico, formale …questi suoni formano delle idee musicali, sviluppate e connesse in vario modo dal compositore per costruire il pezzo; esso esprime così la personalità del compositore, a sua volta influenzata da fattori psicologici, culturali, storici).
Ma poi ci sono anche io uomo che incontro e ricreo - se non altro perché lo faccio risuonare, partendo da segni sulla carta - il pezzo, e che lo incontro a diciassette anni, a trenta anni, o a cinquanta anni, in condizioni storiche,culturali, temperamentali, di gusto, sensibilità ed anche fisiche diversissime, e se l’interpretazione è un incontro tra soggetto e oggetto, il mio modo di cogliere il valore e quindi di organizzare ciò che incontro in una unità significativa cambia, si evolve con me pur avendo sempre il desiderio della bellezza come criterio - ma anche questo desiderio cambia nel tempo, magari si approfondisce, diventa più consapevole.
E poi c’è lo strumento: una interpretazione musicale compiuta è un gesto sonoro, perciò le caratteristiche dello strumento e la acustica ambientale influiscono in qualche modo anch’esse - se suono in un ambiente piccolo o nella Fiera di Rimini con ventimila persone è diverso -; e infine anche il pubblico che diventa parte dell’evento concorre a determinare in certa misura le scelte interpretative - se io suono per qualcuno, questo “per” determina le mie scelte.
Dunque, l’interpretazione è una sintesi, che io compio, di tanti elementi, e per la loro continua mutabilità si capisce come essa sia e non possa che essere in continua espansione: ogni cosa nuova che noto, che capita, che entra nel mio orizzonte, contribuisce a riformulare la sintesi.. E’ come se, invece di bloccarsi su uno qualsiasi degli aspetti accennati sopra, si attraversino tutti per riaffermare, in qualunque condizione ed attraverso tutto, il valore, ciò che vale la pena dire; così l' interpretazione diventa un avvenimento.
C’è una nota frase, credo di Rossini, su Mozart: “Mozart è stato la speranza della mia giovinezza, la disperazione della mia maturità e la consolazione della mia vecchiaia”.
E’ un bell’esempio di sintesi in continua espansione.
3
Come "nota bene", di passaggio, quanto detto implica che il senso musicale di un pezzo non è qualcosa di definito e misurabile una volta per tutte, neanche dallo stesso compositore: un compositore sincero vi dirà che ultimamente la nascita di una idea musicale è un fatto abbastanza misterioso, che il compositore prima di tutto riconosce e poi sviluppa cercando di rispettarlo. E una volta che il pezzo è finito, non è finita la sua vita: diceva ancora Segovia che l’interprete è come Gesù che risuscita Lazzaro, chiamandolo a nuova vita... C'è del paradosso in questo esempio, ma anche del vero .
Dice Romano Guardini in “La fine dell’epoca moderna”: “Ogni grande opera passa attraverso una simile crisi. I primi contatti con essa sono immediati, poggiano sulla comunanza delle situazioni storiche. Quando queste scompaiono il rapporto primitivo si dissolve. E segue un periodo di allontanamento, anzi di avversione, tanto più acceso quanto più i primi consensi erano stati dogmatici, sino a che in un’epoca ulteriore, partendo da nuove situazioni, si ritrovi un nuovo contatto con l’uomo e con la sua opera. Che questo avvenga, che tale rinascita si compia e in quale misura rimanga vivente nella storia, tutto ciò determina in modo decisivo il valore umano dell’opera” .
E vengo all’ultima osservazione, la più pratica che volevo fare: in pratica come avviene questo “fare la sintesi?” Come si fa, o come si può essere aiutati a farla?
Torniamo all'ascolto di poco fa: una cosa che colpisce ascoltando l'esecuzione di Segovia è l’estremo controllo di ogni dettaglio, come se l'interprete decidesse, nei confronti di ogni singola nota, il modo di eseguirla. Al contrario, spesso nel modo di studiare solito accade un certo automatismo, come se il singolo gesto fosse trascinato dal precedente o influenzato dal seguente - così che, per una cosa che si riesce a decidere, magari ne vengono dietro altre dieci non decise, non fatte deliberatamente. E, ancora, mi colpisce l’estremo coinvolgimento emotivo di Segovia’interprete con tutto quello che suona: per certi aspetti questo sarà anche legato ad un temperamento particolare, ma l’indicazione di metodo rimane. Lo stesso Segovia diceva che durante l’esecuzione bisogna “intervenire sul pezzo, ma senza fermarlo” , appunto, ogni particolare determinato dalla idea sintetica che si sta seguendo. Ma come fare?
C’è una indicazione che Segovia da riguardo alla esecuzione delle scale, che sembra quasi banale nella sua concretezza: eseguirle prima lentamente, suonando forte, poi velocemente, suonando piano (lui diceva anche di eseguire le scale per due ore al giorno, per correggere errori di posizione della mano, incrementare gradualmente la forza delle dita, e preparare le articolazioni, per studiare più in fretta dopo! Come dire che non è tempo perso concentrarsi sull’aspetto fisico della questione; esso non esaurisce l’aspetto artistico, ma permette di esprimerlo. Infatti, Segovia diceva anche che le scale migliorano la “bellezza fisica del suono”, mentre "la sonorità e le sue infinite sfumature nascono dalla innata eccellenza dello spirito”). Allora, nella esecuzione lenta, occorre massima cura di ogni dettaglio, come se ogni gesto potesse essere deciso come ripartendo ogni volta da un grado zero; e poi uno sguardo d’insieme nella esecuzione veloce (per esempio curando la regolarità ritmica e dinamica, come suggeriva il metodo per pianoforte di Leimer - Gieseking ). Naturalmente ciò va fatto ascoltandosi criticamente, per valutare il grado di approssimazione di volta in volta raggiunto.
4
Proviamo ad applicare questo allo studio dei pezzi; anche qui devono continuamente interagire queste due fasi: la esecuzione lenta, al punto limite di isolare ogni suono, dandosi il tempo di ascoltarlo in rapporto a tutti gli altri ed imparando a “ri - deciderlo” in base al valore che provvisoriamente riusciamo ad attribuirgli, che coglie, se siamo attenti alla lettura, un aspetto della "verità totale" del pezzo (un intervallo di quinta ha un suono e "senso" diverso da quello di una seconda, un ritmo puntato è diverso da uno non puntato), anche se ancora, magari, non sappiamo bene come questo fattore “giocherà” all’interno della unità totale del pezzo. Quindi, non avere paura di usare la lente a 1000 ingrandimenti, di isolare - provvisoriamente - ogni dettaglio cercando di cogliere alcune sue relazioni, magari con i dettagli più vicini a lui.
Questo come aspetto preliminare del lavoro di sintesi.
Ma poi, o prima, o durante - ogni momento è buono -,ecco la cosa più difficile: il cogliere l’idea, magari ancora in modo parziale. Cogliere l'idea è come una lampadina che si accende ed illumina magari solo una frase, un punto, e per questo è ancora un fatto provvisorio, ma è già l’inizio di un significato del pezzo, di quel pezzo lì - l’idea musicale, anche se non è ancora la sintesi finale, è già una piccola sintesi di tanti elementi che la compongono, già influisce sul modo di vedere e di rendere l’intervallo di quinta, il ritmo puntato, tutti gli elementi che la compongono . Non si censura nessun singolo dettaglio, ma tutto tende a trovare il suo posto, ad essere determinato dal suo posto in un insieme organico. Insisto su questo punto, perché la comprensione di un pezzo inizia quando si accende questa lampadina. Qui sono chiamate in gioco la nostra capacità di immedesimazione, la nostra fantasia.
E infine (quello che corrisponderebbe alla esecuzione veloce delle scale) il tentativo
di uno sguardo d’insieme, sinteticamente globale, pur se ancora pieno di luci ed ombre. In questa fase è importante essere estremamente aperti alle idee nuove che spesso arrivano solo quando si vede il pezzo così, come “da lontano”, e vedere come in questa sintesi, pure anch'essa provvisoria - perché in continua espansione! - si riformulano i particolari, si da’ ancora una volta il “giusto” peso a ciò che si era intuito nelle fasi precedenti. Inoltre, questa apertura lascia ancora spazio alla influenza degli altri fattori cui ho accennato prima: il suono dello strumento, l’acustica dell’ambiente - cambiare ambiente può far venire nuove idee, perché le idee ci vengono dalle circostanze, come qualcuno ci ricorda - fino al temperamento nostro del momento, ed al tipo di pubblico che abbiamo di fronte al momento della performance. Dico che più abbiamo le idee chiare su ogni particolare e la possibilità di intervenire su ogni gesto - e queste cose ce le costruiamo nello studio - più possiamo come ri - decidere tutto in questa fase, se siamo continuamente aperti alla ispirazione del momento, al ricrearsi continuo della interpretazione come avvenimento, come qualcosa di significativo che accade.
E così avviene, attraverso questo lavoro può avvenire l’esplosione della libertà.
Per questo Segovia diceva che l’interpretazione è composta per il dieci per cento di ispirazione , e per il novanta per cento di traspirazione!
Forse possiamo fare qualche esempio e passare alle eventuali domande.
Piero Bonaguri
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Scopo di questo seminario è mettere a fuoco il lavoro dell’interprete.
Come potremmo definire l’interpretazione? A me piace usare la parola incontro, che ho trovato altrove usata per descrivere il fenomeno della conoscenza: l’interprete è un soggetto, un io, che incontra un oggetto - in questo caso il pezzo di musica - cerca di coglierne un senso unitario, di renderlo e trasmetterlo a chi ascolta. Nella misura in cui l’oggetto incontrato possiede un valore artistico, e nella misura in cui il soggetto ha vivo in sé il desiderio di bellezza e la capacità di riconoscere e rendere il bello espresso nell’opera, cogliere ed esprimere questa bellezza non è una operazione fredda e asettica , o puramente intellettuale (è qui particolarmente vero che “solo lo stupore conosce”, come diceva Gregorio di Nissa), ma provoca un gusto che vien voglia di condividere con altri, ed anche questa condivisione (Stravinski usa espressamente la parola comunione) è fonte di un appagamento, come la soddisfazione di un desiderio, è dunque esperienza di libertà , come quando ci si apre a qualcosa di più grande.
Segovia infatti disse che “l’interpretazione, come la vita , è una esplosione di libertà".
Certo, occorre che il gesto del suonare sia vissuto nella sua verità, cioè non sia ridotto o contraddetto nella sua natura profonda - ma su questo pericolo torneremo subito.
Ascoltiamo ora un esempio, e proprio di Segovia, di questa libertà in azione.
(ascolto).
Credo che l’ascolto confermi tutto quello che abbiamo detto finora.
Oggi mi sembra che ci sia una difficoltà proprio di ordine culturale, di mentalità, a cogliere e immedesimarsi con questo tipo di approccio al problema, una difficoltà quindi a definire e soprattutto a vivere l’interpretazione come esplosione di libertà, ed il risultato è che la libertà nel suonare diventa una merce sempre più rara, alla quale forse nemmeno si tiene più di tanto, sia da parte di chi suona che da parte di chi ascolta; per cui spesso il suonare viene ridotto al rispetto di regole, una selva di regole tra le quali districarsi - pensiamo anche a tanto modo di insegnare la musica - in cerca di una perfezione vista come assenza di trasgressioni alle regole (e questo nei casi più seri), oppure un mediocre, ottuso barcamenarsi in un automatismo che contraddice il desiderio di bellezza con cui uno ha cominciato a suonare - e magari uno smette perché non si sta divertendo più - ; oppure, anche se nel nostro campo non mi sembra ancora una tendenza dominante, una ricerca sì di libertà, ma intesa come puro sfogo istintivo che si impone schiacciando e mortificando le possibilità di espressione artistica contenute nel pezzo e riducendo tutto a sensazione effimera, o a sogno...
Io qui non vorrei addentrarmi sui motivi, sul perché di questa situazione che certo è un aspetto, o un frutto, di questo attacco all’io, al cuore di ognuno, attacco che così tanto caratterizza il nostro tempo.
Certo che la situazione in cui viviamo spiega perché, a mio parere, oggi c’è ancora più bisogno di riprendere in mano alcune definizioni ed indicazioni geniali sulla interpretazione, come le frasi di Segovia che citiamo oggi, chiarendosi sempre più le ragioni di quelle affermazioni, senza dare per scontato di essere d’accordo o di averle capite. Raramente infatti, uno impara quello che crede già di sapere, come ha detto qualcuno.
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Essendo questo un seminario con intenti abbastanza pratici, confido che una immersione nella esperienza del lavoro dell’interprete sia la cosa più utile, in questa sede, ai fini di un recupero della posizione vera, presupponendo però almeno il desiderio che l’interpretazione sia o torni ad essere quella esplosione di libertà di cui parlava Segovia. Infatti, come diceva Lewis, “quel che mi piace dell’esperienza è che si tratta di una cosa così onesta. Potete fare un mucchio di svolte sbagliate; ma tenete gli occhi aperti e non vi sarà permesso di spingervi troppo lontano prima che appaia il cartello giusto”.
Affrontiamo dunque il problema del metodo, consapevoli però che non c’è metodo che tenga se prima di tutto non la si desidera, quella libertà di cui parla Segovia
A proposito del metodo di lavoro, mi sembra illuminante l’altra frase di Segovia che ho messo nel titolo:
“L’interpretazione è una sintesi in continua espansione”.
Innanzitutto, perché Segovia parla di “sintesi”?
Il pezzo di musica è una unità costituita da molteplici fattori (per esempio, tanti singoli suoni , in complessi rapporti tra loro: rapporti di tipo melodico, ritmico, armonico, contrappuntistico, formale …questi suoni formano delle idee musicali, sviluppate e connesse in vario modo dal compositore per costruire il pezzo; esso esprime così la personalità del compositore, a sua volta influenzata da fattori psicologici, culturali, storici).
Ma poi ci sono anche io uomo che incontro e ricreo - se non altro perché lo faccio risuonare, partendo da segni sulla carta - il pezzo, e che lo incontro a diciassette anni, a trenta anni, o a cinquanta anni, in condizioni storiche,culturali, temperamentali, di gusto, sensibilità ed anche fisiche diversissime, e se l’interpretazione è un incontro tra soggetto e oggetto, il mio modo di cogliere il valore e quindi di organizzare ciò che incontro in una unità significativa cambia, si evolve con me pur avendo sempre il desiderio della bellezza come criterio - ma anche questo desiderio cambia nel tempo, magari si approfondisce, diventa più consapevole.
E poi c’è lo strumento: una interpretazione musicale compiuta è un gesto sonoro, perciò le caratteristiche dello strumento e la acustica ambientale influiscono in qualche modo anch’esse - se suono in un ambiente piccolo o nella Fiera di Rimini con ventimila persone è diverso -; e infine anche il pubblico che diventa parte dell’evento concorre a determinare in certa misura le scelte interpretative - se io suono per qualcuno, questo “per” determina le mie scelte.
Dunque, l’interpretazione è una sintesi, che io compio, di tanti elementi, e per la loro continua mutabilità si capisce come essa sia e non possa che essere in continua espansione: ogni cosa nuova che noto, che capita, che entra nel mio orizzonte, contribuisce a riformulare la sintesi.. E’ come se, invece di bloccarsi su uno qualsiasi degli aspetti accennati sopra, si attraversino tutti per riaffermare, in qualunque condizione ed attraverso tutto, il valore, ciò che vale la pena dire; così l' interpretazione diventa un avvenimento.
C’è una nota frase, credo di Rossini, su Mozart: “Mozart è stato la speranza della mia giovinezza, la disperazione della mia maturità e la consolazione della mia vecchiaia”.
E’ un bell’esempio di sintesi in continua espansione.
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Come "nota bene", di passaggio, quanto detto implica che il senso musicale di un pezzo non è qualcosa di definito e misurabile una volta per tutte, neanche dallo stesso compositore: un compositore sincero vi dirà che ultimamente la nascita di una idea musicale è un fatto abbastanza misterioso, che il compositore prima di tutto riconosce e poi sviluppa cercando di rispettarlo. E una volta che il pezzo è finito, non è finita la sua vita: diceva ancora Segovia che l’interprete è come Gesù che risuscita Lazzaro, chiamandolo a nuova vita... C'è del paradosso in questo esempio, ma anche del vero .
Dice Romano Guardini in “La fine dell’epoca moderna”: “Ogni grande opera passa attraverso una simile crisi. I primi contatti con essa sono immediati, poggiano sulla comunanza delle situazioni storiche. Quando queste scompaiono il rapporto primitivo si dissolve. E segue un periodo di allontanamento, anzi di avversione, tanto più acceso quanto più i primi consensi erano stati dogmatici, sino a che in un’epoca ulteriore, partendo da nuove situazioni, si ritrovi un nuovo contatto con l’uomo e con la sua opera. Che questo avvenga, che tale rinascita si compia e in quale misura rimanga vivente nella storia, tutto ciò determina in modo decisivo il valore umano dell’opera” .
E vengo all’ultima osservazione, la più pratica che volevo fare: in pratica come avviene questo “fare la sintesi?” Come si fa, o come si può essere aiutati a farla?
Torniamo all'ascolto di poco fa: una cosa che colpisce ascoltando l'esecuzione di Segovia è l’estremo controllo di ogni dettaglio, come se l'interprete decidesse, nei confronti di ogni singola nota, il modo di eseguirla. Al contrario, spesso nel modo di studiare solito accade un certo automatismo, come se il singolo gesto fosse trascinato dal precedente o influenzato dal seguente - così che, per una cosa che si riesce a decidere, magari ne vengono dietro altre dieci non decise, non fatte deliberatamente. E, ancora, mi colpisce l’estremo coinvolgimento emotivo di Segovia’interprete con tutto quello che suona: per certi aspetti questo sarà anche legato ad un temperamento particolare, ma l’indicazione di metodo rimane. Lo stesso Segovia diceva che durante l’esecuzione bisogna “intervenire sul pezzo, ma senza fermarlo” , appunto, ogni particolare determinato dalla idea sintetica che si sta seguendo. Ma come fare?
C’è una indicazione che Segovia da riguardo alla esecuzione delle scale, che sembra quasi banale nella sua concretezza: eseguirle prima lentamente, suonando forte, poi velocemente, suonando piano (lui diceva anche di eseguire le scale per due ore al giorno, per correggere errori di posizione della mano, incrementare gradualmente la forza delle dita, e preparare le articolazioni, per studiare più in fretta dopo! Come dire che non è tempo perso concentrarsi sull’aspetto fisico della questione; esso non esaurisce l’aspetto artistico, ma permette di esprimerlo. Infatti, Segovia diceva anche che le scale migliorano la “bellezza fisica del suono”, mentre "la sonorità e le sue infinite sfumature nascono dalla innata eccellenza dello spirito”). Allora, nella esecuzione lenta, occorre massima cura di ogni dettaglio, come se ogni gesto potesse essere deciso come ripartendo ogni volta da un grado zero; e poi uno sguardo d’insieme nella esecuzione veloce (per esempio curando la regolarità ritmica e dinamica, come suggeriva il metodo per pianoforte di Leimer - Gieseking ). Naturalmente ciò va fatto ascoltandosi criticamente, per valutare il grado di approssimazione di volta in volta raggiunto.
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Proviamo ad applicare questo allo studio dei pezzi; anche qui devono continuamente interagire queste due fasi: la esecuzione lenta, al punto limite di isolare ogni suono, dandosi il tempo di ascoltarlo in rapporto a tutti gli altri ed imparando a “ri - deciderlo” in base al valore che provvisoriamente riusciamo ad attribuirgli, che coglie, se siamo attenti alla lettura, un aspetto della "verità totale" del pezzo (un intervallo di quinta ha un suono e "senso" diverso da quello di una seconda, un ritmo puntato è diverso da uno non puntato), anche se ancora, magari, non sappiamo bene come questo fattore “giocherà” all’interno della unità totale del pezzo. Quindi, non avere paura di usare la lente a 1000 ingrandimenti, di isolare - provvisoriamente - ogni dettaglio cercando di cogliere alcune sue relazioni, magari con i dettagli più vicini a lui.
Questo come aspetto preliminare del lavoro di sintesi.
Ma poi, o prima, o durante - ogni momento è buono -,ecco la cosa più difficile: il cogliere l’idea, magari ancora in modo parziale. Cogliere l'idea è come una lampadina che si accende ed illumina magari solo una frase, un punto, e per questo è ancora un fatto provvisorio, ma è già l’inizio di un significato del pezzo, di quel pezzo lì - l’idea musicale, anche se non è ancora la sintesi finale, è già una piccola sintesi di tanti elementi che la compongono, già influisce sul modo di vedere e di rendere l’intervallo di quinta, il ritmo puntato, tutti gli elementi che la compongono . Non si censura nessun singolo dettaglio, ma tutto tende a trovare il suo posto, ad essere determinato dal suo posto in un insieme organico. Insisto su questo punto, perché la comprensione di un pezzo inizia quando si accende questa lampadina. Qui sono chiamate in gioco la nostra capacità di immedesimazione, la nostra fantasia.
E infine (quello che corrisponderebbe alla esecuzione veloce delle scale) il tentativo
di uno sguardo d’insieme, sinteticamente globale, pur se ancora pieno di luci ed ombre. In questa fase è importante essere estremamente aperti alle idee nuove che spesso arrivano solo quando si vede il pezzo così, come “da lontano”, e vedere come in questa sintesi, pure anch'essa provvisoria - perché in continua espansione! - si riformulano i particolari, si da’ ancora una volta il “giusto” peso a ciò che si era intuito nelle fasi precedenti. Inoltre, questa apertura lascia ancora spazio alla influenza degli altri fattori cui ho accennato prima: il suono dello strumento, l’acustica dell’ambiente - cambiare ambiente può far venire nuove idee, perché le idee ci vengono dalle circostanze, come qualcuno ci ricorda - fino al temperamento nostro del momento, ed al tipo di pubblico che abbiamo di fronte al momento della performance. Dico che più abbiamo le idee chiare su ogni particolare e la possibilità di intervenire su ogni gesto - e queste cose ce le costruiamo nello studio - più possiamo come ri - decidere tutto in questa fase, se siamo continuamente aperti alla ispirazione del momento, al ricrearsi continuo della interpretazione come avvenimento, come qualcosa di significativo che accade.
E così avviene, attraverso questo lavoro può avvenire l’esplosione della libertà.
Per questo Segovia diceva che l’interpretazione è composta per il dieci per cento di ispirazione , e per il novanta per cento di traspirazione!
Forse possiamo fare qualche esempio e passare alle eventuali domande.
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